Gli incendiati è sicuramente una storia d’amore ma è anche una storia sulla schiavitù...
Sì. Noi pensiamo che la schiavitù sia qualcosa che si riferisce ai secoli passati, invece oggi viviamo in una situazione di profonda schiavitù. Nel mondo ci sono intere zone dove parte della popolazione vive in uno stato di schiavitù. Pensa a tutti gli spostamenti dall’Africa all’est Europa, alla Russia, di donne destinate alla schiavitù sessuale. Oppure i maschi che sono reclutati dalla malavita. Quando le cose accadono sotto i nostri occhi tendiamo a non vederle. Se noi andiamo a leggere i libri del periodo in cui gli africani venivano deportati negli Stati Uniti, scopriamo che nessuno scrittore dell’epoca, nemmeno quelli più illuminati o mossi da sentimenti religiosi, parla di questa piaga orrenda. Oggi mi sembra che stia avvenendo sotto i nostri occhi qualcosa che si può chiamare solo ritorno della schiavitù. Ecco perché io ho immaginato che la protagonista del libro sia una schiava e a un certo punto c’è un dialogo con colui che chiamo il cacciatore di schiavi, il quale teorizza che la schiavitù è alla base della vita. In un certo senso dice delle verità atroci, ma non dice che – se anche tutto questo fosse vero – si può non accettarlo. Anche se tu mi dimostri che è così che funziona il mondo, che è così che tutto si regge, io fino alla fine dei tempi posso non accettarlo. Oggi la parola libertà è una parola vuota, dice tutto e non dice niente, a me sembra che sia venuto il momento in cui si debba ricominciare a parlare di libertà nella sua forma più nuda e potente.
In Canti del caos ti rivolgi a un lettore irredento, cosa intendi con questa definizione?
Irredento nel senso che non è stato redento da nulla, nemmeno dalla letteratura. Un lettore che non fa della letteratura un uso pacificatorio ma che si sente ancora inappagato. Alle prese con l’enorme progetto dei tre volumi di Canti del caos, cercavo un lettore che fosse animato dalla stessa esagerata speranza con cui io avevo iniziato a scrivere. In questa epoca la letteratura ha assunto un ruolo di intrattenimento, ma io rifiuto l’idea di una letteratura che serve solo a farmi passare in modo analgesico il tempo che mi divide dalla morte. A me interessa una letteratura che porti un surplus di vita, magari anche di dramma, di disperazione, di distruzione, di tutte quelle cose che esprimono la vita alla sua massima potenza. Ecco perché cerco un lettore che non sia appagato, che si senta ancora affamato e assetato.
Ne Gli esordi l’io narrante non comincia la narrazione dicendo Io ma Io invece…
Dicendo Io invece è come se prima ci fosse un altro romanzo e io cercassi un’altra possibilità di raccontare quelle stesse cose in un modo completamente diverso. È come se prima ci fosse un romanzo che io scarto, nego, scegliendo un altro tipo di voce che si trova bene nel silenzio, in una dimensione in cui tutte le relazioni umane vengono scomposte, spostate e vissute in maniera diversa, comprese le relazioni di causa effetto, narrative, rassicuranti, che infatti vengono oltrepassate. Ne Gli esordi non c’è una narrazione lineare in cui l’Io domina tutte le strutture del racconto, al contrario, ogni cosa che circonda l’Io, le persone, i rumori, le cose che volano nell’aria, acquistano una loro pregnanza e non sono schiacciate da questo Io.
Tu hai dichiarato che uno scrittore dovrebbe trovarsi faccia a faccia con la morte e scrivere con le spalle al muro. Perché?
Io ho iniziato a scrivere da ragazzo, più o meno come tutti, ma dopo i vent’anni ho smesso completamente perché mi sono gettato nell’attività politica e rivoluzionaria rispetto alla quale ho voluto andare fino in fondo, anche deragliando perché mi ci sono buttato dentro senza prudenza. Ho vissuto in giro per varie città, dormendo in case occupate, in uno stato anche di grandissima miseria. Ho lavorato nelle fabbriche, ho fatto il facchino e il portiere di notte e per l’impegno politico non ho nemmeno fatto l’università. A trent’anni sono ritornato a Milano e la mia vita era una catastrofe, un fallimento assoluto, non avevo un mestiere ed ero spezzato a livello personale. In quel momento lì ho cominciato a scrivere veramente, a riacciuffare quel piccolo filo della mia vita che avevo conosciuto prima dei vent’anni, quando leggevo i poeti e gli scrittori. La prima cosa che ho scritto è stata Clandestinità. Abitavo a Milano in periferia, in un minuscolo monolocale con mia moglie e mia figlia piccola. Loro di notte dormivano e io prendevo il tavolino dove mangiavamo e, facendo mille giravolte, lo mettevo dentro al gabinetto e lì ho scritto il primo libro. Ero con le spalle al muro. Allora non lo capivo, ma oggi so che, quando non puoi più andare indietro, il tuo unico movimento possibile è in avanti. E forse quella è la condizione ottimale per uno scrittore.
Come si fa a continuare a scrivere incontrando per anni il rifiuto degli editori?
Anche se può succedere che nel corso della vita potresti non incontrare mai la persona che sia in grado di riconoscerti come scrittore, se tu vuoi veramente scrivere non devi avere paura a collocarti in questa dimensione. Il destino della propria vita non si gioca solo sul terreno della possibilità immediata di comunicazione. Pensa a Leopardi, ci saranno state dieci persone in Italia che capivano vagamente cosa stesse facendo quell’omino deforme che stava in un paesino delle Marche. La storia della letteratura è piena di casi simili, da Melville a Emily Dickinson. Se vuoi passare lo strato dell’armatura in cui sono imprigionate le persone, anche tu devi spaccarti e mostrare la tua ferita. Io mi sentivo come un sepolto vivo, gridavo ma nessuno sentiva, mandavo i libri agli editori e nessuno mostrava di capire quello che io cercavo di dire. Oggi molti mi dicono: ma in fondo lo sapevi che ce l’avresti fatta e avresti avuto successo. In realtà non è affatto così. Chissà quanti altri scrittori ci sono, e ci sono stati nel corso del tempo, che non sono riusciti ad arrivare e magari avrebbero avuto delle cose importantissime da dire.
Gli editori spesso sostengono che chi ha talento prima o poi verrà scoperto…
Ma è un modo per scaricare la responsabilità. Nessuno sa cosa succede realmente sotto terra, vedi solo quello che emerge ma non sai cosa contiene il sottosuolo. La scatola nera è lì, sepolta.
I libri di Antonio Moresco