L'ambientazione scelta, il Sud America, è stata determinate per accogliere questo romanzo a metà strada tra fiaba e realtà? Scegliendo un altro luogo, la storia si sarebbe dipanata nello stesso modo, con la stessa carica “magica”?
L'ambientazione sudamericana, per quanto immaginaria e non realistica, è stata determinante per questo romanzo, così come per ogni mio libro il teatro degli eventi diventa, come sempre, parte integrante della storia. Per ogni libro, infatti, creo un nuovo ambiente: una città con leggi e strade, usi e costumi, facendole prendere vita così come prendono vita i personaggi che in essa e attorno ad essa si muovono. Potrei dire che il nocciolo, il fulcro di ogni mio romanzo è proprio la città, il luogo in cui si svolgono le vicende. In Quello che so di Vera Candida, una storia intrisa di “realismo magico”, molto latina americana, ho creato un paese che può essere definito come la summa di molti paesi del Sud America ma che non è in realtà identificabile in nessuno in particolare. La scelta del “teatro” è per me determinante, perché è dal luogo che inizio a raccontare, che prende forma una sceneggiatura.
Che “fine” fanno gli uomini in questo romanzo? Che tipo di “maschi” sono?
Potrei dire che non fanno nessuna “fine” particolare: volevo scrivere un libro sulla trasmissione delle storie, della saggezza, dell'esperienza tutta al femminile, quindi mi sono concentrata sulle donne senza dare troppo spazio ai maschi, proprio perché non volevo fossero messi in luce in qualche modo. Non volevo, insomma, dare rilievo a figure maschili che in questo romanzo, tranne alcune eccezioni, sono “negative” e portatrici di “disvalori”, incarnando passioni e sentimenti feroci che non volevo in alcun modo giustificare.
Dopo l'uscita di questo ultimo romanzo, sei stata impegnata in un lungo tour letterario: che cosa ti piace di più, nell'incontro con i suoi lettori, e che cosa invece “temi”?
Devo dire che il contatto con il pubblico è per me molto piacevole: ad ogni incontro mi rendo conto che ciascun lettore fa una lettura sempre originale ed inedita del testo. Di conseguenza ho sempre l'impressione che il “mio” senso, il “mio” significato siano scomparsi, e questo può essere un risultato tanto bello quanto brutto, a seconda dei casi e degli stati d'animo: bello perché scopro anche io una versione nuova del mio lavoro, trovando elementi e spunti ai quali non avevo nemmo pensato; brutto perché si ha l'impressione che nulla delle idee originali sia arrivato, ma fa parte del gioco che lo scrittore accetta nel momento in cui dà alle stampe un libro.
I lettori ti amano per uno stile essenziale e poetico allo stesso tempo, ricco di particolari eppure essenziale: quanto lavoro c'è dietro? Quando ritieni che un romanzo sia concluso, raggiungendo la sua forma definitiva?
In realtà non credo mai di aver raggiunto la forma perfetta che vorrei dare ai miei libri: la scrittura arriva sempre come un flusso, sorge in modo spontaneo, ma poi rielaboro ogni volta il testo come fosse un puzzle. Faccio quindi un lungo lavoro di scrematura di quelle che considero parti “superflue”: ad ogni rilettura, sopprimo e cancello fino a quando non ritengo di essere giunta ad una forma definitiva. Quello che i lettori si trovano tra le mani è quindi il frutto di molte revisioni, la forma che ritengo “perfetta” per quel romanzo in particolare.
I libri di Véronique Ovaldé